Missione Di Giustizia Movie
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Viviana Sanna became interested in restorative justice some years ago, thanks to its cooperation with the Team delle pratiche di giustizia riparativa in Sassari University, coordinated by our board member Patrizia Patrizi. Viviana cooperates on different projects with the Team: she is involved in the educational training for the high school students of restorative city of Tempio Pausania and in the psychological counselling desk for the students of Sassari University. Viviana has a degree in Political Science and a master in Human Resources Management. She has completed a three-year course of counselling and she is currently studying to obtain her degree in Clinical Psychology. Viviana is also a member of the theatre group Volpe Bianca, acting and teaching theater to children on a voluntary basis.
Sede legaleVia Aurelia 796 00165 Roma RMSede operativa Ufficio per la pastorale missionaria Piazza Fontana, 2 20122 Milano Tel. 02.8556.311-313 info@festivaldellamissione.it Codice Fiscale 96478210584
Quasi 5.000 anni dopo che gli sono stati conferiti i poteri onnipotenti delle antiche divinità, e imprigionato altrettanto rapidamente, Black Adam (Dwayne Johnson) viene liberato dalla sua tomba terrena, pronto a scatenare la sua forma unica di giustizia nel mondo moderno.
Nel 2007 ebbe luogo una delle tante follie di Takashi Miike, eccentrico e laborioso (quasi ottanta film in meno di un ventennio) regista giapponese le cui pellicole hanno assunto a vero e proprio culto nel Belpaese. Da Ichi the Killer a The Call, da Zebraman alla recente trasposizione in live action di Yatterman, il Maestro di Osaka non ha mai smesso di stupire, dirigendo progetti originali e sempre diversi tra loro, viaggiando praticamente in tutti i generi esistenti. Gliene mancava solo uno, il western, vista l'improbabile missione di trasportare cowboy e saloon in un mondo così diverso come quello orientale. Ma Miike è un autore in grado di cambiare le regole classiche, e di plasmare la celluloide a suo piacimento. E così, con un progetto patrocinato niente di meno che da Quentin Tarantino (presente anche nelle vesti di attore in un breve, ma interessante, ruolo), ha creato il primo "Spaghetti Eastern" della storia della Settima Arte. A dire il vero un esperimento simile, seppur in più piccole proporzioni, era stato tentato con risultati modesti da Terence Young nel 1972 con Sole rosso, dove un samurai (il grande Toshiro Mifune) si ritrovava catapultato suo malgrado negli Stati Uniti in missione diplomatica, e sfidava armato soltanto della sua spada la codardia delle pallottole. Non deve essere però creduto che il mondo dei cowboy e quello dei samurai, apparentemente agli antipodi, siano poi così distanti, soprattutto in ambito cinematografico. Una delle opere immortali del western, capace di portare al successo il sottofilone "culinario" tutto italiano, come Per un pugno di dollari del sommo Sergio Leone altro non era che una versione rivisitata di un altrettanto splendido film di Akira Kurosawa, Yojimbo (in Italia La sfida del samurai), con il "solito" Mifune protagonista. E sempre di Kurosawa, come non ricordare che I Magnifici sette altro non erano che il remake de I sette samurai? Contaminazioni, rimandi, collegamenti che da sempre sono esistiti tra questi due generi, in grado di essere allo stesso tempo popolari nei rispettivi paesi. In entrambi i contesti ci si trovava spesso davanti a storie di vendetta, di giustizia sommaria dove eroi più o meno tormentati mettevano in gioco le proprie vite per la salvezza di qualcuno e per la fedeltà a un ideale. Ed è proprio in questo filo sottile, ma ben saldo, che Miike ha trovato la strada per narrare la sua storia, ricollegandosi per altro a un altro grande classico del western italiota come Django, omaggiato nel titolo e di cui capiremo il significato con una nota negli istanti che precedono il The end, e che sicuramente strapperà più di una, incredula, risata. Se dopo questa introduzione vi è salita un minimo di curiosità, continuate tranquilli a leggere, visto che le sorprese non sono certamente finite qui.
Un misterioso e solitario pistolero (Hideaki Ito) arriva a Nevada, un villaggio semi abbandonato dove la popolazione è stata sottomessa da due clan rivali, i Bianchi che fanno capo al fascinoso Yoshitsune (Yusuke Iseya), e i Rossi comandati dal rozzo Kiyomori (Koichi Sato). Entrambe le bande sono alla ricerca di un immenso tesoro che secondo una vecchia leggenda si trova proprio a Nevada. Il nuovo arrivato, indeciso se allearsi con gli uni e con gli altri a seconda delle offerte che gli vengono proposte, conosce Ruriko (Kaori Momoi), una donna alcolizzata da cui viene introdotto alla storia di quella terra, e sui motivi della sanguinosa lotta tra i due clan. Oltre ad essere una delle poche persone originarie del luogo ad essere rimasta nonostante tutto, la donna alleva con premurose cure suo nipote, il bambino di sua figlia Shizuka, donna di Yoshitsune dal tragico passato. I motivi che spingono l'uomo a trovarsi in quel luogo arido e dominato della violenza non sono di carattere pecuniario come vorrebbe far intendere, ma hanno origine nel suo passato e mostrano un uomo compassionevole, che si offre d'aiutare proprio la bella Shizuka (Yoshino Kimura), vedova per colpa di Kiyomori e diventata una sorta di prostituta nel clan dei Bianchi. Dopo aver assistito anni prima al tragico e crudele omicidio del marito, Shizuka è stata colta da una sorta di follia ed è motivata solo dalla vendetta. E' per questo motivo che decide di ricambiare l'aiuto al pistolero senza nome, il cui scopo è mettere i due clan l'uno contro l'altro affinchè si elimino a vicenda. Ma in questa folle missione di giustizia non sarà solo: la leggendaria assassina Benten infatti si nasconde nel villaggio in vesti insospettabili, e nel momento della verità svelerà il suo volto per combattere insieme a lui.
Due ore (98 minuti nella versione internazionale, tagliata per non "appesantire" la visione al pubblico occidentale) traboccanti di richiami e citazioni, idee e trovate più o meno riuscite, personaggi di indubbio fascino anche se a tratti eccessivamente caricaturati. Sukiyaki Western Django è un film che trabocca, a volte esce fuori dal vaso, o straripa con un'impeto minaccioso, ma che senza dubbio ha il merito di donarci una visione del tutto originale su un genere che ha fatto la storia del cinema. La storia ricalca fedelmente, almeno nella prima parte, quella di Per un pugno di dollari, ma qui al posto del mitico Clint troviamo il, seppur bravo, Hideaki Ito. Ed è proprio nella mezzora iniziale, che il film ha una delle sue pecche, offrendo un riepilogo troppo blando e soporifero attraverso sordidi flashback, laddove un non troppo velato istinto comico pervade le scene, senza però causare risate degne di nota. L'introduzione è insomma, troppo lunga a livello di minutaggio, e impedisce di calarsi subito nell'arida atmosfera desertica, del luogo e dell'anima. Ma è proprio quando si perdono le speranze che SWD risorge prepotentemente, offrendo una valida interpretazione del classico eroe da frontiera, cupo e solitario, pronto a rischiare la vita per il suo credo di giustizia e per una sorta di vendetta contro gli Oppressori covata troppo a lungo. Ma i canovacci tipici del western, rimangono spesso stravolti: da chi si getta nel combattimento con una spada, pronto a sfidare i proiettili, allo smodato uso di una futuristica mitragliatrice, fino alla forte componente grottesca e visionaria che emerge nei siparietti comici. I minuti finali sembrano una riedizione in chiave western dei classici film di yakuza, di cui Miike è prolifico autore, e dei polizieschi hard boiled, conditi con una visione a 360 % che fa sue diverse influenze da ogni luogo cinematografico conosciuto. Non è a sproposito parlare proprio del cinema di Tarantino, il quale ha scelto di partecipare a questo film, proprio perchè si riconosceva nello stile e nella storia in cui, a dire il vero, è presente per pochi secondi (all'inizio, in una sorta di prologo, e a metà film in vesti più "avvizzite"). Non si arriva a esasperazioni pulp, il sangue per quanto scorra copioso è sembra legato a doppio filo con un sapore beffardo, ma di certo qualche gradito omaggio volontario (la presentazione di Bloody Benten è sullo stile dei fake trailer di Grindhouse) è stato abilmente piazzato. Prendendo a piè mani dallo "spaghetti" e non dalla sua controparte di stampo hollywoodiano, SWD lascia poco spazio all'epica pura, risultando sporco e graffiante, probabilmente incapace di suscitare consensi dai puristi amanti dei "ragazzi-mucca", che storceranno più volte il naso. Un film che viaggia al limite dell'assurdo, sempre sul punto di cadere ma capace di rimanere in piedi grazie alla bravura dei suoi attori e alla mano impeccabile di un regista ormai diventato culto. Titolo di cui, pur con i suoi pregi e i suoi difetti, si può avvalere anche questa sua ennesima follia.
Racconta la storia di tre giovani donne afroamericane assunte dalla Nasa nel periodo della segregazione razziale americana. Il loro compito è eseguire a mano i calcoli per fissare le traiettorie dei razzi del programma spaziale Mercury e della missione Apollo 11.
Dopo il successo della missione Friendship 7, raccontata nella pellicola, Dorothy Vaughan divenne una grande esperta di un importante linguaggio di programmazione di computer. Smise di lavorare nel 1971 e morì nel 2008. Mary Jackson lavorò alla Nasa fino al 1985, poi si occupò di diritti delle donne e delle minoranze fino al 2005, anno della sua morte. Katherine Johnson calcolò anche le traiettorie per le missioni Apollo 11 e Apollo 13, smise di lavorare nel 1986.
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